Camminare così, sulla nuda terra, ti rende allo stesso tempo più leggero e più pesante.
Più leggero: perché i pensieri svaporano, perdono consistenza, spariscono quasi, assorbiti dal ritmo regolare degli scarponi sul terreno o dissolti dal vento che si leva all’improvviso facendo turbinare la povere attorno a te. Passo dopo passo sembra che il mondo di “prima”, quello che forse ancora esiste fuori dal Cammino, ritrovi una dimensione più concreta e si sveli in tutta la sua assurda piccolezza, in tutto il suo fragile – mai completamente raggiunto, eternamente precario – equilibrio.
Più pesante: perché ci sei, hai un ritmo, una misura che è tua, solo tua e di nessun altro. È il tuo passo, il susseguirsi di movimenti che ti sono naturali fin dall’infanzia, fin da quando, bambino, hai imparato a mettere un piede davanti all’altro, dapprima barcollando, cercando a tentoni di equilibrare il peso, poi sempre più sicuro, pochi giorni e già non avevi più bisogno di aggrapparti alle sedie, ai mobili, quasi correvi, padrone poco a poco dei tuoi movimenti sempre meno incerti. Ecco, lì è nato il tuo passo. Ti appartiene anche se ti sembra di non conoscerlo, a volte, quando vorresti accelerare o rallentare, smettere di camminare o ripartire subito, nonostante il dolore. Hai bisogno di ritrovarlo, per continuare, e solo dopo giorni e giorni ti accorgi di avere un alleato nella tua ricerca: lo zaino. Il suo peso non è un nemico, è proprio ciò che ti aiuta a misurare le forze, a trovare il tuo posto nel Cammino. Allora, un passo pesante diventa un passo pesato, pensato, misurato e diretto verso una meta. Un passo che non ti tradisce, che ti accompagna al tuo destino, ti fa incontrare le persone che avevi bisogno di incontrare, ti porta a vivere le situazioni che ti erano necessarie per crescere.
(Fotografia e testo di Elisabetta Orlandi – Tutti i diritti riservati)
da Unmilioneottocentomila passi. Io, il mio bambino e il Cammino di Santiago, E. Orlandi, Edizioni Paoline, Milano, 2012